lunedì 14 settembre 2015

LA ZONA GRIGIA, UNA STORIA ITALIANA (breve saggio sul potere)

L'Italia non si salverà. E nemmeno affonderà.
Sopravviverà, si barcamenerà, si arrangerà, come sempre, come ogni giorno da centocinquanta anni a oggi.
Sopravviverà, Renzi o non Renzi, Berlusconi o non Berlusconi. O chi per loro.
Perché in Italia non c'è mai stato un governo nel senso pieno del termine, un governo cioè che potesse autonomamente decidere, autonomamente cambiare, autonomamente fare cose giuste e autonomamente sbagliare. Mai stato. L'Italia da centocinquanta anni è governata da una invisibile “zona grigia”, un occulto e mellifluo esercito di nessuno posti non all'interno, ma “tra” le linee dei palazzi, tra le linee dei partiti, tra le linee dei governi, immortali e imprendibili Talleyrand che hanno appoggiato, favorito e indirizzato indistintamente la destra, il centro, la sinistra, il terrorismo, la criminalità organizzata, i servizi segreti, la strategia stragista, il giustizialismo, il garantismo.
Quella zona grigia che da centocinquanta ci identifica, ci protegge, ci determina, ci sporca e ci monda.
Quella zona grigia che da centocinquanta anni è la nostra unica padrona, il nostro unico governo.
Quella zona grigia che da centocinquanta anni si erge impassibile al di sopra di qualsiasi potere. E di qualsiasi sospetto.
L'Italia, si dice spesso e specialmente da sinistra, è un paese di destra. Sbagliato. L'Italia non è un paese di destra: non c'è mai stata infatti, né mai ci sarà, una destra vera, seria, liberale e liberista, alla Chirac per intenderci. L'Italia non è un paese di destra e non è nemmeno un paese di sinistra. È un paese tragicamente privo di radici ideologiche, un paese di carnevaleschi caciaroni che non sanno, e soprattutto non vogliono, pensare, ostili e allergici a qualsiasi forma elaborata di pensiero, ostili e allergici alla vita e innamorati della sopravvivenza alla bell'e meglio.
Per questo gli italiani detestano sobrietà e semplicità, pregi immensi, e idolatrano la semplificazione, assoluto sinonimo di superficialità. E sempre per questo, soprattutto per questo, gli italiani detestano ideali e ideologie. Le ideologie sono semplicemente complicate, presuppongono profondità di analisi, ampio respiro e larghezza di vedute: l'esatto contrario, in sintesi, della semplificazione.
Un paese di destra, si dice. Ma in Italia, ripeto, un'ideologia vera di destra non c'è mai stata. C'è stata, viceversa, una ideologia di sinistra. Una grande ideologia di sinistra, aggiungo, o meglio grandi ideologie di sinistra (comunista, socialista, gramsciana, crociana e via dicendo). Ideologie che, sistematicamente, hanno sempre perso. Sempre a un passo dalla vittoria e poi sempre sconfitte. Non perché l'Italia fosse, o sia, un paese di destra, ma perché era, ed è, un paese in guerra con i grandi ideali. La sinistra degli ideali non è mai riuscita, né ha mai voluto, semplificare: ha spaccato il capello, ha ribadito, ha cavillato, ha puntualizzato, ha marcato le differenze più sottili, si è continuamente scissa e divisa – benché spesso in maniera suicida – proprio in nome della fedeltà alla complicata semplicità degli ideali. Ha discusso, ha fatto a botte con gli altri e con se stessa, e gli italiani, la maggioranza degli italiani, non l'ha mai accolta né tanto meno votata.
Un'ideologia di vera destra invece, non poteva esserci, soprattutto nel quarantennio della Prima Repubblica. Perché tutto ciò che è di destra, in Italia, è stato fagocitato dall'immagine del Fascismo e di Mussolini. Eppure né il Fascismo né Mussolini erano realmente di destra. Cosa c'entra Mussolini, cosa c'entra il Fascismo con la cultura liberale e liberista della destra storica, della destra anglosassone, della destra francese? Nulla. I fascisti si “accaparrarono” la destra per semplificazione appunto: essendo contro la sinistra, dovevano per forza essere di destra. Essendo estremamente contro la sinistra, dovevano per forza rappresentare l'estrema destra. In realtà non erano niente. In realtà erano un movimento grottesco e ridicolo di trucidi picchiatori di periferia, puttanieri e incolti, amanti delle pacche sul culo alle donne sottomesesse e delle risse, un impasto trito e spiccio di machismo e populismo, patriottismo da due soldi e manganellate nei coglioni. Nient'altro. Ridicoli, grotteschi e impresentabili: nei modi, nei gesti, nelle parole, nelle divise.
Per questo durarono vent'anni. Perché erano simpaticamente e tragicamente italiani. Perché erano professionisti della semplificazione più spietata. Perché non avevano ideali. Perché, soprattutto, non erano niente di serio. Gli italiani voltarono le spalle al Duce proprio quando iniziò a prendersi sul serio e a fare sul serio, quando iniziò a sognare con Hitler un Nuovo Ordine Mondiale e, ovviamente, a rendere tutto più complicato.
Ed è a questa pericolante, raffazzonata e pure incrollabile mistura di impresentabilità, arroganza, sporcizia, fracasso, smargiassaggine e totale assenza di serietà che, da sempre, l'Italia deve la sua sopravvivenza e il suo equilibrio. Il suo posto con se stessa e con il mondo.
Per mantenerlo sono state fatte, letteralmente, carte false. A mantenerlo ci ha sempre pensato, appunto, l'invisibile zona grigia, il regno del mai esposto, del mai detto, del traffico strisciante e silenzioso. Il regno del potere.
Il luogo dove è stato possibile, da sempre, cambiare sempre tutto affinché non cambiasse mai niente.
Risorgimento è una parola che sin dai tempi della scuola impariamo ad associare a termini nobili e altisonanti come eroismo e patriottismo. Una parola che impariamo a usare come sinonimo di Unità d'Italia. Balle. Il Risorgimento “eroico”, il Risorgimento cioè in quanto movimento di persone e ideali, non è mai esistito. O meglio, è esistito, ma ha fallito, è stato sconfitto, fatto a pezzi. Finché il Risorgimento è stato tirato avanti dagli ideali, ne è uscito sistematicamente con le ossa rotte: i moti della carboneria lombarda, i moti mazziniani, le barricate milanese, romane e veneziane della prima guerra d'Indipendenza. Tutti bagni di sangue, tutte spaventose e tragiche sconfitte.
L'Unità d'Italia non l'ha fatta Mazzini né la sua Giovine Italia, non l'hanno fatta i carbonari, non l'hanno fatta i neoguelfi di Gioberti né i federalisti di Cattaneo. L'Unità d'Italia è stata fatta quando la Zona Grigia (iniziamo a usare le maiuscole) ha ritenuto conveniente farla, quando sull'idealistico progetto si sono potuti spazzare via tutti gli ideali di partenza, quando è stato possibile far convergere sull'operazione interessi plurimi, da quelli dei Savoia a quelli dei francesi passando per quelli della massoneria. Quando è stato possibile apparecchiare una gigantesca scacchiera sapientemente mossa e riequilibrata dalle stanze della Zona Grigia.
Quella stessa Zona Grigia che ha saputo costruire un'agiografia nazional-popolare di un'inesistente Unità d'Italia come impresa “dal basso”, inventando un eroe, Garibaldi, all'apparenza gigantesco, ma ai fini del risultato inutile e sapientemente manovrato. Quella stessa Zona Grigia che ha trasformato in impresa eroica le torture, le sevizie e i genocidi compiuti dall'esercito piemontese nel sud Italia, quella stessa Zona Grigia che ha trasformato la pianficata trasformazione del sud a “pattumiera nazionale” in “problema strutturale di insanabile dislivello preesistente”.
Anche l'avvento del Fascismo rientra in tutto questo. Il silenzio/assenso con cui è avvenuto il “colpo di Stato” della Marcia su Roma, il benestare del Re, altro non erano che il via libero concesso dalle stanze immortali della Zona Grigia. In pieno caos post bellico, in piena ondata da Biennio Rosso, con il conclamato “collasso da logoramento e avaria” di quel sistema liberale ed elitario che aveva garantito la sopravvivenza del paese nei decenni precedenti, l'Italia rischiava il crollo e il tracollo. Crollo e tracollo, due termini che nel gergo della Zona Grigia significano cambiamento, cambiamento reale, profondo, totale. Questo non doveva accadere. Gli operai armati avevano occupato le fabbriche, avevano dimostrato di poter mandare avanti la produzione anche senza i padroni, come e meglio di loro. No, non doveva accadere. Gli operai, il popolo, quello stesso popolo cui a inizio secolo la Zona Grigia aveva acconsentito, tramite la politica giolittiana, di concere diritti (e non per ragioni di civiltà e progresso, ma perché indispensabili per garantire la nascita di un'industria competitiva e collocabile nel sistema dell'economia internazionale), adesso andava fermato, rimesso a posto, ricondotto a se stesso. Andava ristabilito l'ordine. Cotti e bolliti i vecchi liberali, serviva un cambiamento. Cambiare tutto affinché non cambiasse nulla. E chi, per farlo, meglio dell'impresentabile, smargiasso, volgare, trucido, tragicamente e simpaticamente italiano Mussolini? Chi, per farlo, meglio di Mussolini il semplificatore?
Tutta la storia d'Italia è stata mossa e determinata dalla logica di convenienza e sopravvivenza dettate e stabilite dalla Zona Grigia.
Quando così, in nome della sopravvivenza e del mantimento del perenne status quo, è stato ritenuto conveniente liberare l'Italia, la Zona Grigia ha rimesso in piedi la Mafia, gli ha permesso di infliltrarsi in ogni dove, di costruire un Impero. Si è alleata con la Mafia per favorire lo sbarco alleato in Sicilia, ha permesso il ritorno di Togliatti e la ricostituzione del Partito Comunista poiché indispensabili nella guerra partigiana e nella stesura della Costituzione, e contemporaneamente schedarli, controllarli e ostacolarli con l'aiuto dei Servizi Segreti Americani, perché la sinistra andava estromessa da ogni incarico governativo, da tutte le stanze dei bottoni. Nell'Italia da ricostruire non c'era bisogno di ideologie, ideali, sogni. C'era bisogno di un nuovo magma di rinnovata conservazione, un nuovo impasto di populismo e nulla, assenza di ideologia e rassicurazione. C'era bisogno del Centro. C'era bisogno della Democrazia Cristana che, diversamente e allo stesso modo dell'elite liberale prima e del fascismo poi, avrebbe saputo essere tutto senza essere niente.
La Zona Grigia. La stessa che in quarant'anni di Prima Repubblica ha garantito ogni possibile equilibrio, in ottica nazionale e in ottica internazionale di Guerra Fredda: il centrismo, l'apertura al centrosinistra con l'ingresso del PSI nelle alleanze di governo, la sistematica estromissione del PCI da quest'ultime, il pentapartito, la connivenza/convivenza tra Stato e Mafia, l'ingerenza statunitense, il continuo aggiramento della Costituzione, l'assenza di laicismo e le concessioni al laicismo, il sistema delle tangenti, il finanziamento illecito ai partiti, la dittatura culturale della Sinistra, la lottizzazione dei canali Rai, l'esistenza di Gladio, i Servizi Segreti deviati, la strategia della tensione, la trasformazione dei movimenti di protesta in sistematica violenza di piazza, il riassorbimento delle eccellenze della generazione ribelle negli apparati dello Stato, gli anni di Piombo, il terrorismo.
Il terrorismo. Aldo Moro doveva morire. Nei giorni più drammatici, cruciali e decisivi della Prima Repubblica, i 55 giorni del sequestro, l'invisibile Zona Grigia ha mostrato tutta la sua melliflua e spaventosa potenza.
Si è detto da più parti, e da più parti si continua a dire, che le Brigate Rosse fossero manovrate da poteri superiori. Falso, falsissimo. Non c'era nessuno dietro le Brigate Rosse, nessun potere occulto, nessun “grande vecchio”, nessuna potente e invisibile infiltrazione. Esse non rappresentavano altro che loro stesse, non agivano in nessun modo se non secondo la loro logica. E le loro autonome decisioni. Le Brigate Rosse non furono manovrate. Furono sfruttate, il che è completamente e radicalmente diverso.
Proprio in quanto non manovrate e non protette, in 55 giorni un'azione reale e massiccia d'intelligence sarebbe per forza arrivata al covo di via Montalcini. Invece no. La Zona Grigia non fece niente, se non rallentare il rallentabile e depistare il depistabile, se non fare in modo che accadesse l'inevitabile.
Aldo Moro doveva morire. Doveva per una pluralità di motivi che portano tutti alla stessa conclusione: era estremamente conveniente che morisse. Anzitutto per la solita, pluriricordata, sopravvivenza dell'immutabile e silenzioso equilibrio di sempre. Il suo progetto di apertura dell'arco governativo al PCI, il progetto del famigerato “compromesso storico” DC/PCI lo avrebbe davvero rotto, quell'equilibrio, fatto saltare in aria, spaccato. Avrebbe davvero, e per la prima volta, aperto scenari autenticamente nuovi. E per questo andava fermato, impedito a tutti i costi. In questo la Zona Grigia trovò nelle Brigate Rosse un alleato inatteso e completamente inconsapevole. Dalla loro i brigatisti credevano sinceramente, con il rapimento e il sequestro, di far saltare lo stato borghese, spaccare la sinistra e riaprire la strada per la rivoluzione comunista. Non avevano capito, e ci sarebbero arrivate solo molto tempo dopo, che non avrebbero fatto altro che ricompattare il fronte della perenne e immutabile conservazione.
In una partita che tutti credevano giocarsi tra lo Stato e le BR, tra Legalità e Terrorismo, a vincere fu solo e soltanto la Zona Grigia. Rallentando e depistando, la Zona Grigia ottenne la posta piena, mettendo tutti con le spalle al muro, lo Stato ingabbiato nella ovvia necessità di difendere le istituzioni e non trattare con i terroristi, le BR ingabbiate nella loro logica rivoluzionaria e di lotta armata e conseguentemente costretti a non retrocedere, e quindi a uccidere Moro, in assenza di trattativa.
Con la morte di Moro la Zona Grigia non solo poté garantire all'Italia la consueta sopravvivenza dell'equilibrio impedendo e congelando qualsiasi ipotesi di reale cambiamento, ma si sbarazzò pure del gruppo armato più numeroso e pericoloso dell'Europa del tempo: con l'uccisione dello statista DC le BR infatti persero di colpo tutto quel sostegno, o “fiancheggiamento”, che un'ampia fetta di società, ci piaccia o no, gli garantiva da anni. E la perdita di quel sostegno, fu l'inizio della loro fine. Facile a questo punto, facilissimo, per la Zona Grigia, nello sdegno generale del post-Moro, far trionfare l'equazione piazze=terrorismo, movimenti di protesta=BR, e decretare la fine dell'onda lunga dei movimenti di piazza, operai, studenteschi ed extraparlamentari.
Quanti pezzi di Stato furono coscientemente conniventi e coscientemente silenziosi in tutto questo, è impossibile dirlo. Di certo ebbero la loro controparte. Nonostante il terribile e funesto “Memoriale Moro”, che basterebbe da solo a far saltare in aria trent'anni di storia repubblicana, lo Stato ha ottenuto che nessuno, nemmeno a posteriori, trattasse il fenomeno BR, né gli anni di piombo in generale, come fenomeno politico, che nessuno lo analizzasse e lo sviscerasse come tale, ma che, viceversa, si relegasse il tutto nella casistica della comune criminalità organizzata.
A far saltare nuovamente l'equilibrio, o almeno a minacciare di farlo, fu il crollo del muro di Berlino. Nel giro di pochissimo tempo, tre anni o poco più, in Italia successe di tutto. La Prima Repubblica si sgretolò sotto il diluvio di Tangentopoli, i vecchi partiti sparirono, la gente comune scese in piazza con il coltello tra i denti, la Mafia – di colpo priva di punti di riferimento – sfidò apertamente lo Stato con una strategia stragista mai vista prima. Per la prima volta, e per quasi due anni, in Italia di fatto non ci fu più una catena di comando.
La sinistra postberlino ed ex comunista, sembrava finalmente destinata a prendere il potere. Per due ordini di considerazioni: 1) il PDS ex PCI uscì di fatto quasi illibato dall'intera inchiesta di Tangentopoli; 2) con il crollo dell'intero pentapartito, DC e PSI in testa, non c'erano più avversari degni di nota. Non dovevano nemmeno fare nulla di particolare per vincere ed entrare dopo quarant'anni nella stanza dei bottoni: con in tasca addirittura il via libero degli USA, occorreva soltanto aspettare le elezioni. E così fu. Nel senso che non fecero proprio niente.
La Zona Grigia sembrava davvero inerme e finalmente con le spalle al muro, perché quella sembrava davvero un'altra Italia. I giudici, le lotte in nome della trasparenza e della legalità, la Mafia fuori dalla catena di comando, gli intoccabili in manette.
Sembrava, ma non lo era. Non era la Zona Grigia con le spalle al muro e non era, quella, un'altra Italia. Come la Fenice, anche la Zona Grigia seppe magicamente risollevarsi dalle proprie ceneri. E lo fece in cinque mosse.
Tangentopoli innanzitutto. L'inchiesta dei PM milanesi si basava sul famoso effetto-domino, vale a dire non concentrarsi sui singoli, ma su un intero “sistema”, su una infinita catena di corruzione che andava a coinvolgere l'intero mondo imprenditoriale e l'intero mondo politico. Un metodo che avrebbe davvero, se fosse continuato, estirpato il male alla radice. La Zona Grigia fece invece in modo, facendo così leva sulla seduzione che esercita sul popolo qualunque forma di sensazionalismo, di far passare l'inchiesta dall'effetto-domino all'effetto “fuochi d'artificio”. Come negli spettacoli pirotecnici, che per dieci minuti si susseguono scoppi di vario genere e poi, negli ultimi minuti, si concentrano tutti i botti più grossi e spettacolari, così che il pubblico si appaga e se ne va a casa contento. L'effetto fuochi d'artificio di Tangentopoli si concentrò così su un solo nome: Bettino Craxi, l'emblema e la sintesi di tutti gli anni Ottanta. Preso Craxi, catturato “il cinghiale”, acconsentito che il popolo si sfogasse su di lui con pioggia di monetine e gettoni telefonici, la pratica Tangentopoli poteva dirsi archiviata. C'era il grande nome, il capro espiatorio, l'uomo di potere a pagare per tutti, c'era lo scoop, la prima pagina, il sensazionalismo. Il popolo poteva mangiare e bere beatamente sul cadavere politico di Craxi, soddisfare la sua rabbia e la sua frustrazione e, il giorno dopo, dimenticarsi di Tangentopoli, dimenticarsi di un sistema di corruzione cui di certo Craxi aveva partecipato, ma che non dipendeva di certo da lui, che interessava al contrario una fetta inimmaginabile di Italia. Perché la Zona Grigia sapeva che gli italiani non volevano estirpare il male, non volevano un altro paese. Gli italiani volevano solo un colpevole da crocifiggere.
L'illusione pidiessina, in secondo luogo. Far sbandierare a qualunque organo di stampa, a qualunque radio o televisione la certezza della vittoria della sinistra, provocò l'effetto voluto, vale a dire immobilizzare i dichiarati futuri vincitori, farli beare in quella sicurezza e depotenziarli di qualsiasi spinta propulsiva.
Terzo, l'iconografia mitologica. Falcone e Borsellino erano stati uccisi brutalmente nei peggiori attentati mafiosi che la storia italiana ricordi. Due morti che provocarono un moto di sdegno irripetuto e, forse, irripetibile. Uno sdegno che giocò di certo un ruolo fondamentale nella generale indignazione degli italiani in tutti gli scandali che esplosero nei mesi successivi. In sostanza la morte tragica di Falcone e Borsellino avrebbe potuto davvero dare il “la” a un moto di reale e concreta presa di coscienza del popolo italiano in nome della legalità e della giustizia. Avrebbe potuto, appunto. Invece la Zona Grigia fece in modo di trasformare i due giudici in due autentici eroi mitologici, avviando un processo di santificazione dei martiri che, ovviamente, ottenne l'effetto contrario della presa di coscienza: li allontanò dalla realtà. Tutti siamo stati a scuola e tutti abbiamo studiato i poemi omerici. Sappiamo chi sono gli eroi: sono uomini soli, che fanno cose fuori dalla realtà, destinati a morire giovani, belli e donchisciotteschi. In definitiva: illusi, pazzi. Eccezioni che volevano cose impossibiili da ottenere.
Quarto, la Mafia. Falcone, Borsellino, quartiere Parioli, Uffizi: quattro spaventosi attentati con cui la Mafia reclamava come mai aveva fatto prima d'ora un posto d'onore nell'Italia della Seconda Repubblica. E la Zona Grigia fece la sua parte, tranquillizzando i boss di Cosa Nostra e avviando una trattativa tra lo Stato e la Mafia. E seppe convincere tutti, la Zona Grigia, della necessità di tale trattativa. Tutti, dalla destra alla sinistra. La merce di scambio fu l'abolizione del 41/bis e la garanzia che nessun governo avrebbe fatto a meno di loro. Da parte della Mafia, la fine delle stragi e la fine del caos.
Infine, il capolavoro. L'invenzione di Berlusconi. Assopita la sinistra nell'illusione oppiacea della vittoria, occorreva un cambiamento vero, di quelli vecchio stampo. Un cambiamento per non far cambiare nulla. Un rinnovato impasto di anti-ideologia e populismo, un qualcuno che poteva essere tutto senza essere niente, un qualcuno che non avrebbe avuto problemi a dirsi di destra solo perché a sinistra non c'era più posto, un qualcuno per niente serio che sapesse irridere il concetto stesso di serietà. Qualcuno che non avrebbe avuto problemi a riciclare i vecchi democristiani e ripresentarli come nulla fosse, a riciclare socialisti pentiti, a riabilitare gli ex fascisti e metterseli al governo, a trasformare i leghisti in ministri, a illudere gli italiani del nuovo che avanza rassicurandoli a suon del vecchio più vecchio possibile, che sapesse far ancora credere agli italiani, unico popolo in tutta Europa, all'esistenza del "pericolo rosso", che sapesse buttare tutto in caciara, in rissa da talk show. E chi, per realizzare tutto questo, meglio dell'impresentabile, volgare, ributtante, osceno, tragicamente e simpaticamente italiano Berlusconi? Chi meglio del semplificatore Berlusconi?
Il resto non è più storia, è cronaca. Una cronaca che ci dice che la Zona Grigia è sempre lì, arbitro e regista dell'irresistibile ascesa del nuovo più vecchio possibile: Matteo Renzi.
Per questo no, l'Italia non si salverà. E nemmeno affonderà.
L'Italia sopravviverà, si barcamenerà, si arrangerà, come sempre, da centocinquanta anni a oggi.
Mi avvio a concludere quest'articolo senza la minima pretesa di aver scritto chissà quale “j'accuse” in stile luterano-pasoliniano. Non c'è, in quanto ho scritto, nessuna clamorosa accusa, nessuna clamorosa denuncia né tanto meno nessuna clamorosa rivelazione. Queste righe sono solo la messa in fila, e forse in ordine, di fatti ed eventi saputi e risaputi da tutti.
Tutti, ma proprio tutti, dal primo all'ultimo italiano, sanno a memoria ogni singola parola da me scritta.
E se tutti sanno, se tutti sappiamo e tutto resta sempre uguale a se stesso nei secoli dei secoli, il motivo è uno e uno soltanto: a noi, o almeno alla maggioranza di noi, va bene così. La maggioranza di noi vuole, in piena coscienza, che tutto cambi affinché nulla cambi, la maggioranza di noi in piena coscienza vuole un paese né di destra né di sinistra, poco serio, carnevalesco e caciarone, volgare e feroce, sporco e meschino, ladro e bugiardo.
La maggioranza di noi vuole la Zona Grigia, e oltre che rassicurata ne è addirittura sedotta. Seduce, e non poco, l'idea di un qualcosa di enorme che si muove sopra di noi, che pone e dispone al di sopra di noi, al di sopra del prete, del sindaco, del capo del governo. E che tiene tutto in equilibrio.
Rimane da chiedersi: e agli altri? Agli altri, a quelli che ci hanno creduto, che ci credono e che ci crederanno, nel cambiamento, negli ideali, in un mondo migliore, cosa resta?
Cosa resta a chi ha sinceramente consumato le proprie scarpe nei cortei di mezza Italia, a chi ha messo in gioco le proprie ferie per organizzare o anche solo partecipare a una qualsiasi festa o iniziativa civile o di partito, a chi ha speso tempo e soldi per campagne elettorali in cui ha creduto, a chi per anni non si è perso un comizio, uno sciopero, una manifestazione, credendoci sempre e nonostante tutto? Cosa resta a chi ha riservato una parte di ogni sua giornata a coltivare un ideale sincero, a chi ha creduto di poter cambiare, innovare, o anche solo resistere? Cosa resta a chi in nome degli ideali ha preso le botte, ha trascorso notti in questura, ha rischiato la vita? Cosa resta a chi ci è pure entrato, nelle istituzioni, come responsabile, segretario, consigliere, assessore, deputato o addirittura ministro, mosso dalle migliori intenzioni e ha dovuto fare i conti con la totale impossibilità a realizzare qualsiasi cosa, anche la più piccola?
Mi piacerebbe dire che gli resta e ci resta tanto, tantissimo, ma non ci riesco fino in fondo. Mi piacerebbe dire che gli resta e ci resta l'azione locale, ma non riesco nemmeno in questo: ho visto come la Zona Grigia sappia agire anche in comuni minuscoli, come anche in minuscoli comuni a muovere ogni cosa siano interessi superiori e invisibili che ci sovrastano e ci soverchiano.
Molti si rassegnano e abbandonano. Abbandonano i centri sociali, le associazioni, le sezioni, l'attività politica, le manifestazioni, gli scioperi.
Altri semplicemente si adeguano e passano il resto della propria vita a dire quanto erano stupidi, quando ci credevano.
Altri ancora si lasciano seudrre dalla Zona Grigia e ne diventano complici.
E allora agli altri, a quelli che non si rassegnano, quelli che non si adeguano, quelli che non passano dall'altra parte, cosa resta?
Di certo ci resta il fegato gonfio, la delusione, i conti spietati con il disincanto e il disnganno, gli sguardi pieni di vergogna verso chi ha vent'anni meno di noi e chiede quotidianamente conferma ai propri occhi gonfi di speranza e pensieri puliti.
E forse ci resta qualcos'altro. Qualcosa di molto importante. Ci resta alzarci la mattina e guardarci allo specchio senza sentire il dovere di sputarci in faccia. Ci resta raccontare ai nostri figli una storia diversa.
Ci resta una casa pultia come la nostra coscienza.
Uno sguardo sulle cose pulito. Una vita pulita.
Che, visto da ogni angolo di questa nostra maledetta Italia, non sembra proprio una cosa da poco.

Buon anno,
Riccardo Lestini

r-esistenze
articolo pubblicato per la prima volta il 31/12/2014

lunedì 24 agosto 2015

r-esistenze: E POI MI DICI SIAMO TUTTI CHARLIE (breve saggio sull'Apocalisse)

"e gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce"
Giovanni, III, 19 


Scrivo questo articolo come un fiume in piena, rovesciando e vomitando sul foglio appunti, idee, impressioni, suggestioni, considerazioni, prove e riprove accumulati, in testa e non, negli ultimi anni, negli ultimi mesi, nelle ultime settimane e, soprattutto, negli ultimi giorni.
Scrivo questo articolo pensando, o penso scrivendo, senza soluzioni in tasca, senza risposte da elargire, solo seguendo il filo del senso vertiginoso di assurdo e inconcepibile che mi attanaglia e mi sovrasta da tempo, filo che cammina pericolante sul tragitto della rabbia. E della verità.
Scrivo questo articolo dopo aver fatto trascorrere qualche giorno dal brutale attentato alla redazione di Charlie Hebdo, dopo aver fatto decantare la marea informe di emozione/commozione/indignazione. Dopo, soprattutto, aver aspettato una triste prova del 9 che, purtroppo, mi ha dato ragione. La constatazione cioè che, passata qualche ora, già nessuno è più Charlie. Perché? Semplice, semplicissimo. Elementare: perché nella storia (presente, recente, passata e remota) non siamo mai stati tutti Charlie.
Ma – visto che quanto accaduto a Charlie Hebdo non è che lo spunto per affrontare un discorso infinitesimamente più ampio – andiamo con ordine. Anzi, con DISordine, visto che è di DISordine che parleremo e visto che è nel DISordine che siamo costretti a vivere.

1. ACHILLE E PATROCLO (ovvero: NON SIAMO TUTTI CHARLIE) 

charlie“Je suis Charlie”: lo abbiamo scritto, postato, twittato, disegnato, esibito, sventolato. Tutti. Ma proprio tutti.
E sarebbe stato bello se la condivisione collettiva del dolore fosse stato un reale moto di indignata protesta civile, un reale bisogno di stringersi nella solidarietà e nella rabbia contro un crimine assurdo. Purtroppo così non è stato, di sicuro non lo è stato nella maggioranza dei casi.
Questo perché, in una società realmente sana, nel corpo ma soprattutto nello spirito,davanti a una tragedia di così ampia portata, la vera  protesta  civile, la vera solidarietà, la vera  condivisione collettiva, vengono dopo, dopo il fuoco e le fiamme, dopo le lacrime a caldo, dopo la commozione del momento.
Perché una tragedia di così ampia portata, se la si vuole davvero combattere, prevenire, impedire che accada ancora, va indagata, discussa, compresa,sviscerata, capita a fondo. E la comprensione reale degli eventi è un percorso ben più difficile e doloroso della sofferenza istantanea.
Ma noi non siamo una società sana, siamo abbastanza insani nel corpo e completamente malati nello spirito. Noi siamo continuamente affetti dalla “sindrome di Achille e Patroclo”.
Il che significa che a noi dei motivi, dei contesti, di ciò che ha generato un qualsiasi evento e di ciò che da quell’evento può scaturire, non ce ne importa niente. A noi interessa l’evento in sé, spogliato dai nessi di causa ed effetto. E in casi come questi, ci interessano solo il sangue fresco e le lacrime calde. Ci interessano le vittime e ci interessa piangerle. Poi, parafrasando Pavese, di chiederci perché sono morti, e cosa ne faremo di tutti questi morti, non siamo capaci.
Dell’Iliade a noi interessa soltanto che Patroclo sia morto e che Achille lo pianga con uno strazio e un dolore senza pari nella storia della letteratura. Il perché Patroclo sia morto, non ci interessa. E non ci interessa nemmeno perché Achille pianga così tanto. L’importante è che ci sia un cadavere, una vittima, e che qualcuno ne soffra incommensurabilmente. Subito dopo infatti, la scuola ce lo insegna, appena Achille smette di piangere, l’Iliade non ci interessa più: saltiamo tutti gli episodi successivi per arrivare rapidamente a un altro aspetto che ci entusiasma, vale a dire la vendetta. Anche qui, la vendetta in sé: l’importante è che Achille uccida Ettore,che si vendichi. Non ci interessa perché né per come né, tanto meno, cosa genererà questa vendetta.
Ecco che allora consumata la tragedia, e consumata la vendetta, la scritta “Je suis Charlie”scompare. Inesorabilmente.
Eppure quello slogan planetario avrebbe (condizionale d’obbligo) un significato ben preciso: non vuol dire semplicemente “condanno l’episodio in sé”, ma più precisamente, e più approfonditamente, “io difendo la libertà d’espressione, sempre e comunque”.
Libertà d’espressione.
Un qualcosa di semplice e per questo spaventosamente immenso. Talmente immenso che c’è bisogno di difenderlo nonostante sia tra gli articoli fondamentali di tutte le moderne costituzioni dei paesi più avanzati.
Il problema è che se qualcuno si pone realmente  in difesa della libertà di espressione, lo fa 365 giorni all’anno, non soltanto nello spazio di una tragedia nel suo compiersi.
Allora, lo slogan “Je suis Charlie” sparisce non già perché il problema sia risolto, ma perché la tragedia è passata. E quando sulla tragedia cala il sipario (sono sempre gli antichi greci a insegnarcelo) viene fuori la verità, e cioè che, fondamentalmente, della libertà di stampa, di parola, d’espressione, di satira, non frega davvero un cazzo a nessuno.
Marco Travaglio, che è antipatico e per questo gli italiani si rifiutano di starlo a sentire (perché in Italia non conta quanto tu sia capace, intelligente e competente, l’importante è che tu sia simpatico), la scorsa settimana a Servizio Pubblico di Santoro, in molto meno di dieci minuti è riuscito a fare un agghiacciante excursus storico della libertà di satira nell’Italia repubblicana, dalla celebre Canzonissima di Dario Fo e Franca Rame fino ai giorni nostri.
Il risultato è la fotografia di un popolo non tanto beatamente e fancazzisticamente indifferente, ma ferocemente ostile e contrario alla libertà di satira.
canNessuno era “Charlie”quando Franca Rame fu barbaramente stuprata, anzi, gran parte dell’opinione pubblica – molti in silenzio, altri apertamente – sostenne che l’attrice se l’era cercata, che avrebbe fatto meglio a stare zitta. Nessuno era “Charlie” quando Massimo Troisi fu eliminato dal palinsesto Rai l’ultima sera di Sanremo per un monologo sulla miseria di Napoli, anzi, gran parte dell’opinione pubblica disse che avevano fatto bene, tanto di quel che diceva quel terrone non si capiva un cazzo e ci volevano i sottotitoli. Nessuno era “Charlie” quando D’Alema arrivò a denunciare Forattini per una vignetta satirica, anzi, guai a chi osa intaccare la famigerata moralità dei comunisti scherzandoci sopra. Nessuno era “Charlie”quando con l’editto bulgaro Berlusconi cacciò dalla Rai a calci in culo Luttazzi, Biagi e Santoro, tanto il primo è volgare, il secondo è un vecchio rincoglionito e il terzo un rompicoglioni patentato e,ovviamente, antipatico. Nessuno era “Charlie” quando a Maurizio Crozza, sul palco dell’Ariston, fu impedito per dieci minuti di fare il suo spettacolo, anzi, si disse e si scrisse che a Sanremo la satira doveva essere vietata. Nessuno era “Charlie” quando l’intero stato maggiore del PD è insorto per denunciare l’imitazione del ministro Maria Elena Boschi, anzi, bene così, che è davvero di cattivo gusto ironizzare sulla bellezza femminile.
Allora no, nessuno – o almeno “quasi” nessuno – è Charlie, quasi nessuno lo è mai stato, e quello slogan così tanto sbandierato è stata l’ennesima gigantesca ipocrisia di una società non solo aliena, ma addirittura contro la satira in ogni sua forma.
Mi si dirà e mi si contesterà che tutta questa storia non regge, che questi episodi non sono paragonabili alla strage di Parigi. Qui si parla di licenziamenti, cancellazioni, fischi, denunce, “al massimo” uno stupro (che lo stupro, si tenga ben presente, nella nostra società è sì una colpa, ma sempre con mille se e mille ma: com’era vestita la donna? Provocava? Eccetera, eccetera… ). Nessuno qui, da noi e di noi, noi mondo civile, si è mai sognato di far irruzione nella redazione di un giornale e fare una strage. Vero, verissimo. Ma almeno chiediamoci perché se a queste dorate libertà civili del nostro mondo democratico e illuminato teniamo così tanto, ogni volta che vengono minacciate non muoviamo un dito e non alziamo una voce per difenderle, anziché contribuire a sotterrarle.
E poi mi dici siamo tutti Charlie…

2.IL CONTENUTO È SUPERFLUO (ovvero: APOLOGIA DEL VITTIMISMO)

15-charlie-hebdo-jesus-church.w529.h352.2xQualche ora prima che la frase “Je suis Charlie” inondasse il mondo, il pianeta terra, nella sua stragrandissima maggioranza, ignorava cosa fosse Charlie Hebdo.
E, sempre sulla scia della sindrome di Achille e Patroclo, ha continuato a ignorarlo anche dopo la strage. Su Facebook, Twitter e in ogni dove possibile, si postava “Je suis Charlie”, ma si continuava a ignorare cosa fosse, non perché non ci fosse modo di saperlo, ma perché non importava saperlo. Gli islamici hanno trucidato dodici giornalisti, vignettisti, liberi artisti satirici. Dodici innocenti. Bastava questo.
E non sto certo dicendo che sapere cosa fosse, e soprattutto cosa pubblicasse Charlie Hebdo, avrebbe attenuato o addirittura giustificato l’orrore dell’attentato.
Sto solo dicendo che,nella nostra percezione degli avvenimenti, il contenuto è assolutamente superfluo. Conta solo la forma, o meglio la forma in cui l’avvenimento ci viene presentato.
In questi giorni, come molti di voi, avrò letto centinaia di articoli in materia, ascoltato decine di discorsi, oceani e oceani di parole. Tra tutti, il più intelligente, approfondito, illuminato e illuminante è quello pubblicato da Wu Ming nel blog www.wumingfoundation.com in data 8 gennaio (Wu Ming, per chi non lo sapesse, è un collettivo di scrittori che scrive e pubblica romanzi storici della madonna…oltre a questo gestiscono e animano uno dei migliori blog esistenti sulla rete).
In questo articolo, intitolato Appunti sul vittimismo italiano, si parla di un ‘paradigma vittimario’ creato nel corso del tempo e buono per tutte le stagioni, perfetto per scatenare difesa e indignazione trasversali, senza schieramenti né ideologie.
Parlare genericamente di “morti” o più specificatamente di “oppressi” anziché di “vittime”, imporrebbe considerazioni complicate, implicazioni ideologiche, analisi dei contesti, ricerche sulle motivazioni, excursus sul passato recente e remoto. Sfumature, divisioni, conflitti, coscienze non pacificate. Imporrebbe di tornare– di nuovo – a Pavese: “che ne facciamo dei morti? Perché sono morti?”.
Imporrebbe, in estrema sintesi, di pensare.
Ma una società pensante, una società non paga di superficie ma assetata di profondità, non è auspicabile da nessuno. Si vuole invece, e si pretende, dall’alto e dal basso, un società non tanto semplice, quanto semplificata. Nel linguaggio, nel pensiero e,soprattutto, nelle idee.
Per questo il paradigma della vittima è perfetto. La vittima, si diceva, esige e ottiene empatia e solidarietà a priori, trascende le idee dei singoli e compatta e appiattisce il pensiero: a favore delle vittime e contro i carnefici, senza se e senza ma. Affinché avvenga questo però, è necessario che anche l’avvenimento sia presentato in maniera superficiale, vaga e fumosa: le vittime non hanno storia, o se la hanno non deve essere troppo chiara, sono vittime e basta, sono vittime e quindi stanno dalla nostra parte, quella dei “buoni”; parimenti, i carnefici sono presentati in maniera altrettanto vaga, non hanno nome né storia, sono “gli altri”, “i cattivi”, “imalvagi”, “i demoni”.
In questo caso sono i fondamentalisti, gli arabi, gli islamici.
Sapere da dove vengono, gli uni e gli altri, conoscere le “puntate precedenti” che hanno dato origine al tutto, non conviene al potere e non interessa alla massa.
Ancora Achille e Patroclo: è più semplice estrapolare quell’episodio eleggerlo a se stante.
Così Patroclo è una vittima e possiamo piangerlo come tale, senza chiederci altro. Legarlo al resto dell’Iliade e del Ciclo Troiano renderebbe il nostro pianto empatico e compassionevole molto più complicato e problematico, meno assoluto, ragioneremmo e ponedereremmo. Scopriremmo il contesto, verremmo per esempio a sapere che in realtà i due amici erano anche, e soprattutto, amanti, e le lacrime di Achille, diventate di colpo lacrime gay, non avrebbero lo stesso effetto universale.
Con Charlie Hebdo è successo, e succede, lo stesso. Dopo i giorni del dramma le pagine di Charlie Hebdo, fino ad allora sconosciute ai più, hanno visto d’improvviso la luce, rimbalzando in ogni dove e svelando l’estremismo irridente e spericolato della rivista, che non ha soltanto sfottuto il profeta Maometto, ma che ha pure osato disegnare in prima pagina la Vergine Maria a gambe spalancate. È bastata questa goccia di “contesto” a rendere tutto più complicato, a ritirare il sostegno universale alla rivista e alla libertà disatira, alla rimozione del planetario “Je suis Charlie”.
Sparito “Je suis Charlie” e sparita la barricata a difesa della libertà di satira, non è sparito tutto il resto. Restano, cioè, le vittime e i carnefici con tutti i paradigmi. Basta sostituire lo specifico “attentato alla redazione di Charlie Hebdo” con il generico “strage di Parigi”. Basta tornare in superficie, dimenticare il contesto appena accennato e riproporre lo schema semplificato vittime/carnefici.
E a noi va bene così. Perché tanto, ripeto, il contenuto è assolutamente superfluo.

3. L’ORDINE È DISSOCIARSI
(ovvero: IL MONDO SALVATO DAI MANICHEI)

Nell’Alto Medioevo, agli albori del pensiero cristiano inteso come dottrina dogmatica, il Manicheismo, quell’orientamento che credeva nell’esistenza di due principi e due regni contrapposti – il Bene e il Male, fu bollato come eresia.
Oggi il Manicheismo non solo è tornato di moda, ma pare essere la nuova via maestra, il nuovo dogma da accettare senza altre domande.
Scontato e naturale che in un mondo che non chiede altro che semplificazione, l’ottica manichea, la divisione netta tra il bene e il male, tra buoni e cattivi, senza alcuna sfumatura (e soprattutto senza alcuna domanda), diventi l’unica strada percorribile.
Chiedersi, domandarsi, in sostanza, e di nuovo, pensare, è un pericolo, un delitto. Chi si pone questioni, chi pensa, automaticamente abbandona il partito dei buoni e passa dall’altro lato del mondo, quello dei cattivi. Ogni tentativo di analizzare i contesti, di sviscerare la storia, di sottolineare differenze e sfumature, viene tacciato di “giustificazione al terrorismo”.
Vado sul personale.
A me,come a tantissimi altri intellettuali politicamente (e, a questo punto, pericolosamente) schierati, nelle ore e nei giorni successivi alla strage di Charlie Hebdo, sono piovuti diktat dalle parti più disparate, ma che si andavano a concludere sul medesimo imperativo: dissòciati!
Ma da che cosa? Da cosa esattamente mi devo dissociare? Da cosa dovevo prendere le distanze?
Dal terrorismo, dal fondamentalismo islamico. Condannarlo in maniera netta, e soprattutto senza spiegazioni né precisazioni.
I vari inviti piovuti in quelle ore convulse nella mia bacheca Facebook e nella mia posta elettronica, erano tutti dovuti a un mio post scritto, a caldo, poco dopo l’assalto a Charlie Hebdo. In quelle poche righe scrivevo come ogni attentato alla libertà di espressione fosse un crimine control’umanità, ma – aggiungevo, specificavo – come ripugnassi i vari fascisti/leghisti/lepenisti che avrebbero usato (e lo hanno effettivamente fatto) quel sangue innocente come bandiera della loro ideologia xenofoba che vuole a tutti i costi identificare Islam e terrorismo. Aggiungevo, inoltre, come ci volesse un bel coraggio ascrivere “Je suis Charlie” quando si difende – e si sostiene –un’ideologia come quella nazifascista che del rogo dei libri e della  eliminazione sistematica di tutte le voci “contro” ha fatto da sempre il suo principale credo.
Queste le parole che,secondo molti, finivano per giustificare il terrorismo. Queste le parole che, secondo molti, creavano pericolose confusioni. Queste le parole che, secondo molti, non esprimevano una netta dissociazione e che, di conseguenza, rischiavano di essere scambiate per “connivenza”. Queste le parole che hanno portato molti ascrivermi frasi come “adesso tu devi scrivere un articolo dove condanni e basta”, “basta ambiguità, ora devi scegliere: o di qua o di là, o stare con noi o contro di noi”.
Nonostante a tutto questo abbia già ampiamente risposto nei giorni scorsi, lo rifaccio pure in questa sede, e con più forza.
Mi dispiace, ma io non devo dissociarmi da niente e da nessuno, né tanto meno devo prendere le distanze da alcunché. Il motivo è semplice ed elementare: io il terrorismo, la violenza, il fanatismo e fondamentalismo religioso, li condanno con forza, e instancabilmente, 365 giorni l’anno, e non ho bisogno di un attentato per fare una “scelta di campo”. L’ho già fatta, da quando ho raggiunto l’età della ragione, più o meno una trentina d’anni fa. Capisco che la mia necessità di pensare, la centralità stessa che ancora demando al pensiero nella nostra vita di tutti i giorni, finisca per essere guardata con sospetto, ma non è colpa mia se viviamo in un’epoca in cui si pensa che solo il Manicheismo possa salvare il mondo.
Così come 365 l’anno, e altrettanto instancabilmente, difendo la libertà d’espressione, di pensiero, di stampa e di satira. E chiudo a questo proposito la parentesi strettamente personale, ancora su Charlie Hebdo.
Cosa penso io davvero di questa rivista? Prima del 7 gennaio, Charlie Hebdo lo conoscevo “a strappi”, nel senso che non la seguivo, ma davo ogni tanto una lettura veloce su internet. Meglio, molto meglio, conoscevo singolarmente molti dei principali collaboratori, specie per le loro “puntate” su Linus, rivista fumettara cui sono abbonato da decenni. La mia opinione, da conoscitore superficiale a conoscitore approfondito, non è mutata: ritengo che Charlie Hebdo sia l’opera di spregiudicate, caustiche, goliardiche e anarchiche teste di cazzo,che amano il gusto dell’esagerazione parossistica e spasmodica,talmente spasmodica da essere, spesso e volentieri, innocua e fine a se stessa, e non di rado di cattivo gusto.
No, non mi è mai piaciuto molto Charlie Hebdo. Ma non perché troppo violento. Il difetto che gli riconosco è l’esatto contrario: troppo poco “violento”.
Mi spiego meglio: la violenza eversiva – e splendida – della satira è tale solo quando è tagliente, allusiva, metaforica. Quando diventa troppo aperta, troppo sfacciata, troppo scoperta, perde la sua potenza, la sua efficacia. E di conseguenza innocua. Mi dispiace, ma ho letto e riletto Molière, e per me la vera satira è quella. In più, sempre restando in territorio francese, sono un esegeta di Rimbaud, e sono convinto che la “violenza eversiva e corrosiva” della parola sia davvero ben altra cosa.
E anche e soprattutto in questo, nello scegliere da parte dei terroristi come “obiettivo sensibile” per “colpire al cuore dell’occidente” la redazione di un’innocua rivista di fumetti, renda la tragedia di Parigi ancora più assurda.
Tornando al discorso sulla dissociazione, ancora più grave è quella che è stata richiesta praticamente agli arabi di tutto il mondo. In sostanza, dal momento che sei musulmano (soprattutto se sei un musulmano che vive in occidente), devi dissociarti da quanto successo, devi prendere pubblicamente le distanze.
Ma perché? Perché una persona che professa la religione islamica dovrebbe affrettarsi a dissociarsi dai terroristi francesi, dai tagliagole dell’IS, dai talebani, dai militanti di Al Quaeda? Sarebbe come se ogni volta, davanti ai barbari e ignobili massacri perpetrati più o meno quotidianamente dall’esercito isrealiano sulla striscia di Gaza nei confronti di innocenti civili palestinesi, ci recassimo in massa nelle sinagoghe e chiedessimo a tutti gli uomini di religione ebraica di prendere le distanze dal governo d’Israele. Come se ogni volta, davanti a un  attentato mafioso, la comunità internazionale chiedesse a tutti noi italiani di dissociarci.
Ci indigneremmo e ci offenderemmo, noi in quanto italiani e gli ebrei in quanto ebrei.
Ma queste, lo so, sono sottigliezze. Sono pensieri. E i pensieri inquinano e confondono.
Il mondo, ormai è chiaro, sarà salvato dai manichei.

4. DONNE, CAMMELLI E MAMMA LI TURCHI
(ovvero: LA SCOPERTA DELL’ISLAM)

L’Islam di fatto, nella nostra percezione, esiste da poco, è scoperta recente. Quando di qualcosa non se ne parla, non solo non ce ne preoccupiamo, ma tendiamo a considerarlo inesistente.
Così, nella nostra concezione europeocentrica dell’universo, fino a una ventina (anzi meno) d’anni fa il cosiddetto “mondo arabo” era un altrove senza storia che non ci riguardava, come se fossimo rimasti ancora fermi all’indefinito Cataio di Ariosto, popolato di generici infedeli e femmine infingarde dotate di spaventosi poteri magici.
Filtravano, fino a poco tempo fa, soltanto poche leggende metropolitane, modi di dire, eredità arcaiche di letterature perse nei secoli. Come i turchi che fumavano come ossessi o, per i pochi che avevano letto Shakespeare, che guerreggiavano con la Repubblica di Venezia al largo delle coste di Cipro. Come i nordafricani che offrivano a bianchissimi turisti europei un numero imprecisato di cammelli in cambio di spose altrettanto bianche. Poco altro. Del resto non avevamo tempo di approfondire, eravamo impegnati a difenderci dai sovietici, dai russi, dai bolscevichi, dai comunisti che mangiavano i bambini.
Poi il muro di Berlino è venuto giù, il comunismo è finito, i russi hanno smesso di cibarsi di pargoli e sono diventati di colpo buoni. È stato a quel punto che abbiamo scoperto il mondo arabo e l’Islam. Ed è sempre a quel punto che l’Islam è diventato una minaccia per la nostra civiltà.
Poco importa se quella religione, e quella società, esistevano, ed esistono, da oltre millequattrocento anni. E poco importano, di nuovo e ovviamente, le infinite puntate precedenti, remote e recenti. Noi, il mondo islamico, lo abbiamo appena scoperto. E lo abbiamo scoperto, e continuiamo a scoprirlo, quasi esclusivamente in virtù del terrorismo internazionale, e quasi esclusivamente in virtù di una tragica superficialità basata su sentenze non verificate, di sentiti dire più o meno ufficiali, di sintesi sbrigative e facilone.
Si dice (e pure si scrive), dai salotti della televisione al bar, che lo sterminio gli infedeli sia il cuore del messaggio religioso del Corano, che la violenza sia insita nel Corano: ma in quanti, prima di emettere o prendere in prestito queste sentenze, hanno veramente letto il Corano? E in quanti hanno veramente letto la Bibbia? Letto nel senso di integralmente e approfonditamente? Credo in pochi. Molto pochi.Penso infatti che se lo leggessimo, anzi se li leggessimo, il Corano e la Bibbia, ci accorgeremmo di avere due testi che, in quanto portatori di un messaggio non genericamente letterario ma specificatamente mistico, sono necessariamente altissimi, problematici e contraddittori. Ci accorgeremmo come, tanto nel Corano quanto nella Bibbia, a scene di vendetta, violenza, brutalità e punizione, si alternino parabole di amore immenso e speranza universale.
Ma non ce ne accorgiamo. Non vogliamo accorgercene, non vogliamo sapere, non vogliamo approfondire. Come nel medioevo, quando insigni intellettuali disquisivano su Platone e Aristotele senza aver letto una sola riga dei loro testi originali, ma solo le summae, le sintesi del loro pensiero interpretate, filtrate e, ovviamente, manomesse da altri. Così siamo noi. Ci basta la summa.
Una conoscenza così scopertamente superficiale, posticcia e – mi scuso se mi ripeto –manichea, che sorge il sospetto che sia stato non un caso, ma una necessità. “scoprire” l’Islam proprio in questo periodo storico.

5. IS (ovvero: È GIÀ TUTTO ACCADUTO)

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Anche se ci rifiutiamo di impararlo, i grandi storiografi, da Sallustio in poi, ci hanno insegnato come per formare, cementare, rafforzare e, soprattutto, tenere in piedi una società, sia necessario compattarla attorno a una minaccia, attorno a un nemico.
Allora ecco che non solo scopriamo, ma continuiamo di continuo e all’infinito a scoprire l’Islam quando, e da quando, l’Unione Sovietica non esiste più e i russi hanno smesso di organizzare banchetti a base di carne fanciullesca. Da quando in sostanza il crollo del Muro di Berlino ha reso indispensabile la creazione di un nuovo equilibrio mondiale basato sull’esistenza di un nemico. Vago, opaco, indistinto.
Sembra che tutto accada da ora, ma in realtà tutto è già accaduto. Purtroppo, per noi, e per fortuna, pare del mondo, la nostra memoria è breve, brevissima,quasi inesistente. Così la scoperta, dell’Islam o chi per lui, può ricominciare ogni volta.
Possiamo così scoprire un mondo esistente da oltre millequattrocento anni e col quale ci siamo incontrati, più volte e di continuo, un mondo che prima abbiamo invaso armati della croce per liberare il Santo Sepolcro e che poi ci ha invaso a sua volta fino a minacciare la cristianissima Vienna. Un mondo che poi, in tempi più recenti, abbiamo colonizzato e impoverito, quindi abbiamo decolonizzato, successivamente usato a nostro piacimento come scacchiere indifeso della guerra fredda, arricchendolo e immiserendolo a seconda dell’occorrenza, e che infine abbiamo dimenticato. E poi riscoperto di nuovo, nella necessità spasmodica di un nuovo nemico.
Da mesi siamo tutti giustamente scioccati e sconcertati dagli agghiaccianti video di propaganda dei tagliagole dell’ISIS. Ma anche di questo gruppo di criminali, assassini, islamonazisti, abbiamo una percezione confusa e distorta. Una distorsione che, ancora e come sempre, nasce da una conoscenza parziale, incompleta, insufficiente, relativa esclusivamente all’azione in sé. Sappiamo solo che sono uomini incappucciati che in nome dell’Islam, e per annientare l’occidente, tagliano le teste di ostaggi innocenti.
Altro non sappiamo, né altro dobbiamo sapere. Ignoriamo chi sono, da dove vengono, come si sono costituiti, in che modo hanno ingrossato le loro fila, come sono cresciuti fino a fondare un califfato tra la Siria e l’Iraq. Ci manca, come sempre, una quantità enorme di puntate precedenti a dir poco indispensabili per comprendere il fenomeno.
Ma questo fenomeno, in realtà, ci interessa davvero capirlo? Oppure ci basta la rappresentazione della vittima in sé (l’ostaggio innocente con la gola tagliata che nel gioco di ruolo finisce per incarnare l’intero occidente) e del carnefice in sé (l’incappucciato che incarna l’intero mondo musulmano)?
Ovviamente, lo dicono i fatti, ci basta la rappresentazione in sé, senza puntate precedenti. Non solo ci basta, addirittura la pretendiamo, la esigiamo. Vogliamo,si è detto all’inizio, identificarci con la vittima, e per questo essa deve necessariamente essere pura, immacolata, assoluta. L’eterna e immortale riproposizione della favola di Fedro del lupo e dell’agnello.
Cosa accadrebbe se invece non ci accontentassimo e andassimo a scavare a fondo? Se, in sostanza, avessimo il coraggio di ricostruire, passo dopo passo,passaggio dopo passaggio, la storia?
Anzitutto scopriremmo come quello stesso califfato di tagliagole, l’ISIS appunto, non è spuntato fuori dal nulla né, tanto meno, è l’apice di una fantomatica predisposizione alla violenza, al martirio e alla barbarie di tutto quanto l’Islam, ma che, al contrario, è il risultato di decenni e decenni di precise scelte politiche. Scopriremmo che l’ISIS non è che l’ultima puntata di un serial lungo decenni la cui trama cancelliamo continuamente. E scopriremmo, tra l’altro, come a combattere l’ISIS, in prima linea, ci siano gli stessi musulmani, curdi in testa, quegli stessi musulmani che in maniera sprezzante chiamiamo “islamici moderati” (sprezzante sì, visto che è così forte dentro di noi l’identificazione tra Islam e Terrorismo, che per gli islamici non terroristi abbiamo bisogno di specificare con l’aggettivo “moderati”).
Si ripete in continuazione oggi, con i puntuali videomessaggi di morte dell’ISIS e ancor di più con la strage di Parigi, come “da oggi, siamo veramente in guerra”, come “da oggi, la guerra ce l’abbiamo veramente in casa”. Noi ci crediamo, ma credendoci ciecamente dimentichiamo che la stessa cosa fu detta, e creduta, negli anni scorsi: anche dopo l’11 settembre si disse “da oggi, la guerra ce l’abbiamo veramente in casa”, e la stessa cosa si disse dopo gli attentati di Madrid e di Londra.
In sostanza c’è la necessità, ogni volta, di ripartire da zero, cancellare il pregresso, creare l’illusione di una minaccia tutta nuova, sconosciuta come un’invasione aliena, l’allarme per un pericolo esploso improvvisamente e per il quale occorrono misure eccezionali al fine di difenderci.
Ma l’ISIS, a parte la macabra spettacolarizzazione dei videomessaggi, non porta messaggi particolarmente nuovi. Anche la sua stessa natura teocratica non è affatto nuova. Ma conviene farcelo credere e conviene crederci. Così come non hanno nulla di nuove le famigerate misure eccezionali di sicurezza che l’occidente si troverà costretto ad adottare.
L’ISIS una novità? No, questo è quello che crediamo. In realtà è il frutto malato, e annunciato, di decenni di politica malata.
L’ISIS una novità? No, questo è quello che crediamo. In realtà è solo una versione più truce, feroce, informatizzata e mediatica di altri gruppi di terrorismo internazionale che conosciamo da decenni.
L’ISIS una novità? No, questo è quello che crediamo. I califfati teocratici, gli “stati islamici”, in realtà li conosciamo da tempo. Uno in particolare, l’Arabia Saudita, dove fustigazioni, lapidazioni, barbarie d’ogni sorta e segregazione della donna in nome di una visione distorta e folle di un testo sacro, sono all’ordine del giorno. Lo sappiamo bene, lo sappiamo a memoria. Ma lo dimentichiamo, perché con l’Arabia Saudita da decenni facciamo affari fondamentali per il mantenimento delle nostre ricchezze e dei nostri privilegi, al punto che lì, nonostante alle donne sia addirittura proibito prendere la patente, non ci sembra così indispensabile “l’esportazione della democrazia”.
Stesso dicasi per le eccezionali misure di sicurezza. Si discute e si dibatte sulla temporanea sospensione degli accordi internazionali di Schengen sulla libera circolazione degli individui alle frontiere, come fosse una novità clamorosa ed epocale dettata dalla situazione senza precedenti che stiamo vivendo per la minaccia del fondamentalismo islamico. Dimentichiamo che i trattati di Schengen sono stati sospesi, negli ultimi anni, con estrema leggerezza e semplicità, ogni qualvolta lo si è ritenuto necessario, anche per molto,moltissimo meno. Nessuno ricorda che bastò il G8 di Genova per sospendere tutti gli accordi di Schengen per oltre due settimane?
Tutto è già accaduto,ma tutto pare non sia mai accaduto. La storia si ripete di continuo,l’importante è che nessuno se ne accorga.

6. L’INVENZIONE DELLA VERITÀ (ovvero: LA STORIA NON ESISTE)

Chi comanda non solo scrive e applica le leggi, ma da sempre detiene un potere ben più immenso e smisurato: (ri)scrive la Storia.
In Romanzo Criminale Giancarlo De Cataldo scrive una frase a dir poco geniale. Quando “Il Vecchio”, cioè il fosco e grigio personaggio che tira i fili occulti della storia recente d’Italia posponendo e disponendo stragi, intrighi di palazzo, misteri nazionali e via dicendo, parla con i suoi due scagnozzi dei servizi segreti che dietro suo ordine hanno cancellato ogni traccia di alcuni fondamentali documenti sulla strage di Bologna, commenta il tutto dicendo “noi non inventiamo bugie,noi inventiamo la verità”.
La storia, benché disciplina umanistica, è (o meglio sarebbe) una scienza a tutti gli effetti: si basa esclusivamente su dati che, per quanto interpretabili, sono assolutamente certi e che vengono giustapposti uno accanto all’altro secondo rigidi nessi di causa ed effetto.
Ma questa storia, quella cioè che ogni giorno, da professore, cerco di insegnare ai miei alunni, in realtà – laddove per realtà si intende il nostro quotidiano, non esiste.
La storia riflessa nel nostro vivere quotidiano altro non è che quella continua “invenzione della verità” così splendidamente esemplificata da De Cataldo. Un coacervo perverso di omissis, dimenticanze e menzogne costruite ad hoc.
Si pensi, ad esempio,alla continua “invenzione” dell’anno zero. Chi detiene il potere ha sempre, e da sempre, deciso da dove far iniziare e come far iniziare la storia. Così ai tempi dell’Impero Romano l’anno zero coincideva con la fondazione dell’Urbe, e gli anni erano contati A.U.C. (ab urbe condita, dalla fondazione della città appunto). Poi il potere è passato in mano ai vertici del cristianesimo e la storia è (ri)cominciata dalla nascita di Gesù.
Una pratica rinnovata, in minore, di continuo. Così l’11 settembre e l’attentato alle Twin Towers è stato “l’anno zero” della minaccia islamica e della scoperta del mondo arabo (poco importa, come si diceva precedentemente, se lo si conosceva già da un millennio e mezzo: l’invenzione dell’anno zero presuppone anche, e soprattutto, la cancellazione del passato). Un “anno zero” indispensabile a giustificare la guerra in Afganistan. Così come indispensabile è stata la sua cancellazione, quando gli attentati di Londra e Madrid  sono diventati nuovi “anni zero”, fondamentali per giustificare la guerra in Iraq. Ennesimi “anni zero” da distruggere e cancellare, per sostituire con un “anno zero” ulteriore, quello di oggi, quello dell’apparizione dell’ISIS e della strage di Charlie Hebdo.
Ma se provassimo a fare ameno di tutti questi anni zero, a – mi si perdoni il gioco di parole – cancellare le cancellazioni, a riavvolgere il nastro, a guardare alla storia reale e materiale, a quel complesso di dati certi legati da rigidi rapporti di causa ed effetto, cosa vedremmo? Come cambierebbe lo scenario finalmente dotato di tutte le puntate precedenti?
Anzitutto vedremmo come la guerra in Iraq nascondeva ben altri scopi e ben altre motivazioni dalla necessità di “rispondere” all’11 settembre, di difendersi dagli attacchi di Al Quaeda negli USA e in Europa, di estirpare il fondamentalismo islamico e di importare la democrazia. Se infatti si voleva combattere il fondamentalismo religioso, perché si scelse di attaccare un dittatore notoriamente laico come Saddam Hussein?
Non solo. Vedremmo come in realtà, nonostante i suoi innumerevoli e brutali crimini, Saddam non aveva mai appoggiato Al Quaeda né alcuna delle sue risoluzioni. E vedremmo, soprattutto, come viceversa nei decenni precedenti, in piena guerra fredda, proprio in funzione antisovietica, gli USA avevano palesemente e pubblicamente appoggiato, finanziato e foraggiato organizzazioni terroristiche d’ogni sorta, Al Quaeda intesta, in tutto il medioriente, in Siria, in Afganistan, in Palestina, in Nordafrica, creando mostri pressoché ovunque. Quegli stessi mostri che oggi vengono a terrorizzare le nostre strade e che, purtroppo, non nascono dal nulla come funghi in giornate piovose di settembre, ma che, come si diceva nel capitolo precedente, sono il frutto malato di decenni di politica imperialista altrettanto malata.
Mostri la cui complessità storica e sociale va ben oltre la semplice classificazione di“fanatismo religioso”. Anche perché il fanatismo religioso puro, da nord a sud e da est a ovest, quale che sia il credo di riferimento, è generalmente innocuo e generalmente quanto di più lontano possa esistere da un’azione violenta e terroristica. Si pensi, ad esempio, ai Testimoni di Geova (la cui pericolosità massima è l’assalto costante ai nostri campanelli nel tentativo di venderci Gesù Cristo porta a porta come fosse un’enciclopedia), agli Amish, ai monaci tibetani, ai mistici orientali. Sorge infatti il sospetto, alla luce della complessità del fenomeno e degli intrecci storici e politici che lo hanno generato, e soprattutto alla luce di un numero di adepti sempre crescente, che il cosiddetto “integralismo islamico” abbia motivazioni completamente altre rispetto ai comandamenti coranici. Sorge cioè il sospetto che la rivendicazione religiosa non sia altro che la coltre d’apparenza d’una più estrema, e radicale, rivendicazione sociale. Come ai tempi di Papa Urbano II, quando il suo appello alla crociata e alla liberazione del Santo Sepolcro fu raccolto dall’entusiasmo delirante di decine di migliaia di poveri, straccioni e nullatenenti (la cosiddetta “crociata dei pezzenti”) che nell’impresa videro il miraggio non di una giustizia religiosa, ma di un riscatto sociale alla loro condizione di miserabili. Così oggi, che a ingrossare le fila dell’ISIS vanno donne e uomini nati e cresciuti nel civilissimo occidente, figli e nipoti degli immigrati delle ex colonie, gente delle estreme periferie dell’Impero, delle scuole di frontiera e di second’ordine dove sono stati mandati a studiare, dei quartieri-ghetto dove sono stati stipati, ammassati e costretti a vivere in un’eterna condizione di indigenza dalla cosiddetta “politica di integrazione”.
Un tutto che se analizzato così, nel suo reale complesso, nella sua reale successione di causa effetto, non va a giustificare le follie terroristiche (come accusano i manichei d’ogni sorta ogni volta che si provano ad analizzare tali argomentazioni), ma chiede disperatamente una soluzione urgente e reale.
E le soluzioni, le vie d’uscita, almeno quelle reali, possono partire soltanto dalle verità storiche e dall’assunzione di responsabilità.
Ma non si vuole questo. Non siamo in grado di ammettere che in quelle gole tagliate anche l’occidente ha la sua parte di responsabilità, e allora preferiamo non sapere, non indagare, continuare a inventare l’anno zero e dividere il mondo tra buoni e cattivi.
Non capiamo che così non solo facciamo il gioco dei terroristi, ma ci comportiamo come loro.
I terroristi appiattiscono il pensiero, l’intelligenza e la civiltà nella logica crociata del “chi è contro di noi, chi non è come noi, annegherà nel suo stesso sangue”. Noi, scaricando il terrorismo sull’intero mondo islamico, facciamo la stessa identica cosa.

7. M’AMA, NON M’AMA (ovvero: STORIE DI CASA NOSTRA)

roberto_benigni_sanremo_2011_ansaPer capire quanto siano radicate, non solo nella società ma in ognuno di noi, le semplificazioni, le sistematiche cancellazioni della storia, le ricerche ossessive delle vittime pure e immacolate, saltiamo – come si suol dire – “a bomba” in casa nostra, in Italia.
Nel nostro paese farsesco e paradossale infatti, a creare vittime e vittimismi ad hoc, a cancellare la storia e ad approntare anni zero alla bisogna, a semplificare e a falsare la verità, siamo a dir poco maestri. Maestri esperti e navigati per di più, impegnati da tempo immemore nello sforzo titanico di trasmettere e cementare vulgate nazionalpopolari completamente falsate e finire per imporle come verità ufficiali.
Oggi per assolvere questo compito abbiamo la potenza micidiale di quell’arma di distruzione di massa che è la televisione, in particolare le fiction di stato, dei veri e propri “uffici stampa” del vittimismo e della riscrittura della storia. Se non servissero ad assolvere questo compito prioritario, non si capirebbe davvero perché si spenderebbero così tanti soldi ogni anno per produrre fiction di qualità non scarsa, non scadente, ma improponibile, girate male e recitate peggio.
Fiction, nonostante questo, accuratamente scelte e selezionate. Non è soltanto il solito gioco dei raccomandati e dei “figli di”: semplicemente, si sceglie con cura di cosa parlare e di come parlarne. Non a caso le poche fiction italiane di valore e degne di essere viste (come Boris e Romanzo Criminale, entrambe rare e coraggiose nel raccontare la verità, la prima in chiave grottesca, la seconda in chiave tragica), non le hanno prodotte né Rai né Mediaset, sono andate in onda su canali satellitari a pagamento e poi mutuate dalla tv generalista solo anni dopo, quando chi le voleva vedere le aveva già viste, e soprattutto trasmesse in seconda serata, che al giorno d’oggi significa tra le undici di sera e mezzanotte.
Come nel gioco “m’ama non m’ama” coi petali delle margherite, si scelgono gli argomenti che possono essere spediti in prima serata e si depennano quelli che non si possono affrontare nemmeno a notte fonda.
Ma quali sono gli argomenti scelti e come vengono trattati?
In primis, l’eterna mitologia agiografica degli “italiani brava gente”, mai colpevoli di niente, sempre immacolati, sempre nel ruolo delle vittime umiliate e offese. In questi giorni sui canali Rai c’è un martellamento mediatico senza precedenti che sponsorizza non il giorno, ma addirittura “la settimana della memoria”, vale a dire sette giorni di programmi, film, approfondimenti, speciali e fiction dedicati alla tragedia della Shoah. Benissimo, mi verrebbe da aggiungere, anzi poco: per non dimenticare ci vorrebbero non sette,ma almeno settanta giorni l’anno dedicati al martirio degli ebrei durante la seconda guerra mondiale. Ma attenzione alle parole usate negli spot che pubblicizzano l’iniziativa. Si parla di “vittime”,di “innocenti”, di “agnelli sacrificali”, in un assoluto senza contesto. Nel senso: non va dimenticato che sei milioni di ebrei sono morti, non “il perché” sono morti. Nell’operazione mediatica della memoria dell’olocausto sparisce la storia che lo ha generato. Da questi speciali, da queste fiction tragicamente oscene e banali, quasi spariscono i nazisti.
Ma perché? Perché se andassimo anche in questo caso a fondo, se andassimo a scavare nelle pieghe reali della storia, dovremmo portare fuori dagli armadi brutti scheletri che nessuno ha voglia di guardare in faccia. Scheletri che ci racconterebbero come l’antisemitismo nell’Europa del tempo era sentimento radicato non solo nella folle esaltazione genocida di Hitler, ma anche nella gente comune; come gli ebrei erano additati da secoli come la causa di ogni male, il capro espiatorio perfetto per ogni situazione (a nessuno verrà mai in mente di proporre una fiction sull’affare Dreyfuss). E soprattutto questi scheletri distruggerebbero la mitografia degli italiani brava gente, raccontando il ruolo primario giocato dall’Italia, dal suo governo e da parte della sua popolazione, nell’olocausto, con l’avallo e l’approvazione delle leggi razziali.
Ci dovremmo guardare dentro, in sostanza. E non sarebbe un bello spettacolo. Allora fabbrichiamo fiction e speciali pacificati e pacificanti, dove sei milioni di ebrei vanno a morire senza un perché, senza una storia. E a noi basta così, loro sono vittime e noi, brava gente, siamo con loro, siamo loro. Così poi Giuliano Ferrara può andare in televisione in prima serata e gridare che l’Islam vuole distruggere la civiltà giudaico-cristiana senza che nessuno ci trovi niente di strano, senza che nessuno si accorga che parlare di civiltà giudaico-cristiana sia una abominevole stortura storica: cosa sarebbe la civiltà giudaico-cristiana? Dove e quando sarebbe nata, se per secoli i cristiani per primi si sono resi protagonisti dell’antisemitismo, se per secoli i giudei, assassini di Gesù, sono stati emarginati in primis proprio dai cristiani?
Ma noi, italiani e cristiani, non possiamo avere colpe né responsabilità, nessuna colpa circa il fascismo, circa la follia della seconda guerra mondiale, circa la shoah. Noi siamo le vittime, da sempre. E da sempre siamo alla ricerca di vittime senza storia da raccontare e su cui specchiarci. Presto, c’è da scommetterci, ci ritroveremo in prima serata una fiction sulla vicenda dei due Marò. Una storia perfetta per la nostra Italia: due italiani detenuti in un paese lontanissimo, malati, privati dell’affetto e del conforto delle loro famiglie. Due vittime esemplari. Non importa il perché siano lì, non importa il perché del loro arresto e della loro detenzione, non importa la circostanza mai chiarita di due militari mercenari in quell’imbarcazione, non importa che facendo il tiro a segno contro un incolpevole peschereccio abbiano ucciso due pescatori. Non importa, loro sono barbari, sono indiani, sono incivili, sono “gli altri”, sono “l’altrove”. Noi siamo italiani, siamo vittime da sempre. Il nostro stesso inno nazionale è un concentrato assoluto di italico vittimismo e malcelate menzogne.
L’inno nazionale, la retorica risorgimentale. Non abbiamo soltanto le fiction brutte e dozzinali. A sostegno di tutto questo marchingegno intervengono anche illustri personaggi di caratura mondiale. Il primo è Roberto Benigni, che durante l’allora centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia tenne a Sanremo una celebre lectio magistralis sull’inno di Mameli. In quell’occasione Benigni – che non solo è più credibile delle fiction, ma che dall’Oscar alla “Vita è bella” in poi è circondato da un’aura di totale inattaccabilità –in poco più di mezzora riuscì a esibirsi in un concentrato di retorica e menzogne senza precedenti. Ci ha propinato la versione “poeticamente clownesca” della vulgata sul risorgimento, parlando del sacrificio eroico degli italiani vittime da secoli, di un grandioso movimento popolare fomentato da ideali illuminati e altissimi. Tacendo e omettendo quella verità storica che da centocinquanta anni nessuno dice e nessuno vuole sentirsi dire, quella verità che ci direbbe che il Risorgimento in quanto movimento di persone e ideali, non è mai esistito. O meglio, è esistito, ma ha fallito, è stato sconfitto, fatto a pezzi. Finché il Risorgimento è stato tirato avanti dagli ideali, ne è uscito sistematicamente con le ossa rotte: i moti della carboneria lombarda, i moti mazziniani, le barricate milanese, romane e veneziane della prima guerra d’Indipendenza. Tutti bagni di sangue, tutte spaventose e tragiche sconfitte. Quella verità che ci direbbe che l’Unità d’Italia non l’ha fatta Mazzini né la sua Giovine Italia, non l’hanno fatta i carbonari, non l’hanno fatta i neoguelfi di Gioberti né i federalisti di Cattaneo. Quella verità che ci direbbe che l’Unità d’Italia è stata fatta quando la si è ritenuto conveniente farla, quando sull’idealistico progetto si sono potuti spazzare via tutti gli ideali di partenza, quando è stato possibile far convergere sull’operazione interessi plurimi, da quelli dei Savoia a quelli dei francesi passando per quelli della massoneria. Quella verità che ci sbatterebbe in faccia le torture, le sevizie e i genocidi compiuti dall’esercito piemontese nel sud Italia, che ci direbbe come sia stata pianificata la trasformazione del sud in “pattumiera nazionale” e in “problema strutturale di insanabile dislivello preesistente”.
Ma non solo. Analizzando l’inno di Mameli, Benigni ci ha riproposto il vecchio e assurdo mito fascista (ma mai tramontato) della romanità. Ci crediamo, e operazioni del genere rinfocolano continuamente questo credo, figli della grandiosità universale dell’Impero Romano, discendenti diretti di quello splendore eterno, ma ancora una volta ignoriamo e omettiamola storia. “Romanità” non è mai stato sinonimo di “italianità”, ai tempi dell’Impero “romani” non significava “italiani”, ma significava “italiani, iberici, greci, africani, mediorientali, balcanici, britannici, celti” e chi più ne ha più ne metta. Dal 96 d.c. quasi nessun imperatore ebbe origini italiche, e molti di loro regnarono senza vederla mai, Roma.
Noi non siamo romani,siamo al contrario figli di un meticciato post imperiale che mescola popoli preesistenti all’ascesa di Roma e popoli barbarici: siamo un incontro di romani, celti, etruschi, goti, normanni, arabi. Siamo figli di una terra di transito e di conquista. Figli di una mescolanza. Ma tutto questo non ci piace, e anche qui sentiamo il bisogno di inventare la verità. Meglio ancora se, per inventarla,abbiamo a disposizione braccia armate illustri come quelle di Benigni.
E ancora e infine, il mito dell’Istria e la storia delle Foibe, altra vulgata figlia di un intreccio pazzesco di omissioni e menzogne, di un’ennesima invenzione della verità.
Wu Ming, nell’articolo sul vittimismo citato all’inizio,parla diffusamente del fortunatissimo spettacolo teatrale Magazzino 18, scritto e interpretato da Simone Cristicchi e dedicato all’italianità dell’Istria e alla tragedia delle foibe.
Anche il mito dell’italianità dell’Istria ha profonde radici risorgimentali e fasciste (la pace mutilata, i proclami dannunziani, il motto del ventennio secondo cui in Istria “anche i sassi parlano italiano”), e anche questo non è mai tramontato, ma come quello della romanità si basa su clamorosi falsi e clamorose omissioni della verità storica. Perché la verità storica ci dice che l’Istria fece parte del Regno d’Italia solo per venticinque anni (dal 1920, trattato di Rapallo, al 1945, sconfitta dell’asse nazifascista), e circa la Dalmazia solo il 5% della popolazione parlava italiano, e quasi tutta concentrata nella sola città di Zara. Ma questo revanchismo altoadriatico con oggetto l’Istria e la Dalmazia, forse più di moda oggi che ai tempi del ventennio, sponsorizzato dal pluricelebrato monologo di Cristicchi, trova fondamento in una sorta di versione nordorientale dell’assioma romanità=italianità di cui si parlava prima. L’Istria e la Dalmazia avrebbero indiscussa patente di Italia per via della Repubblica di Venezia, per i lunghi di secoli di dominazione veneziana su quelle terre. Ma anche questa “sponda”su Venezia, è una bufala storica che ci piace accettare passivamente. Andiamo a vedere la storia reale e chiediamoci perché allora, il fulcro stesso dell’irredentismo del nord est, vale a dire Trieste, per oltre cinquecento anni era stata asburgica, quindi austriaca? Volutamente asburgica, occorre aggiungere, nel senso che Trieste si pose volontariamente sotto la protezione dell’Impero austriaco proprio per non finire sotto Venezia. Quindi Trieste, benché simbolo dell’irredentismo che giustificò l’ingresso dell’Italia nel primo conflitto bellico (pensate solo quante piazze italiane recano l’orgoglioso titolo di “Piazza Trento e Trieste”), in realtà “irredenta” non lo fu mai, dal momento che, se a differenza di Venezia e del Veneto non entrò nel Regno d’Italia dopo la terza guerra d’indipendenza del 1866, fu proprio perché storicamente non fece mai parte del territorio veneziano. Senza parlare di tutte quelle terre slovene che l’Italia occupò militarmente dopo il 1918, sempre in nome dell’antico dominio veneziano, nonostante in quelle terre Venezia non vi aveva mai messo piede e nonostante nessun abitante di quelle terre parlasse italiano. E meno male che “anche i sassi” dovrebbero parlare italiano, da quelle parti.
Quelle parti che, non da ultimo, sono state anche, e soprattutto, il teatro della tragedia delle foibe. Una tragedia tanto cara ai neofascisti e alla nuova destra, che una volta sdoganati e reinseriti nell’arco di governo da Berlusconi nel ’94, si sono adoperati per riportarla alla luce e usarla per un duplice scopo: da un lato ribaltare i ruoli della guerra di liberazione e mettere i partigiani sullo stesso piano dei fascisti, dall’altro dimostrare come “l’oblio delle foibe” fosse il simbolo stesso di una storia egemonizzata e raccontata esclusivamente da parte comunista. Poi però, la percezione delle vicende belliche in territorio sloveno e croato, hanno preso un’ulteriore direzione. E cioè: da avamposto delle rivendicazioni neofasciste contro una presunta storia dettata dal punto di vista comunista, a storia nazionale, memoria condivisa. Oltre ai celebri libri di Pansa, Luciano Violante, PD, ha reso omaggio ai “ragazzi di Salò”, l’ormai ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, PD pure lui, ha parlato degli italiani uccisi in Slovenia come “vittime la cui unica colpa era quella di essere italiana”. Che è poi la medesima tesi alla base dello spettacolo di Cristicchi. Poco importa se in tutta questa neomemoria nazionale condivisa ci sia una voluta e sistematica omissione della storia reale: Cristicchi non ha la fama di Benigni, però ha vinto Sanremo, è nazionalpopolare, vota PD, è simpatico, piace pure alla destra ed è quindi inattaccabile. Una manovra perfetta per trasformare il suo spettacolo infarcito di menzogne “Magazzino 18” in nuovo Vangelo, in verità rivelata.
Del resto è facile inventare la verità. Ormai credo che il trucco sia chiaro: basta spostare l’anno zero. Basta far cominciare il tutto nel 1943, al momento cioè dell’inizio della guerra di liberazione dei territori slavi. Far cominciare il tutto nel 1943 e dimenticare tutto il resto: dimenticare che a partire dal 1918 l’Italia aveva invaso militarmente territori che italiani non erano né erano mai stati, che nel 1941 l’Italia fascista e la Germania nazista avevano invaso l’intera ex Jugoslavia abbandonandosi a torture e massacri d’ogni sorta. E dimenticando soprattutto che gli italiani uccisi in quei territori a partire dal 1943, non furono uccisi in quanto “italiani”, ma in quanto “invasori”. Così come si dimentica che il silenzio quarantennale sulla tragedia delle foibe non fu opera di un occultamento voluto da una storia letta in chiave partigiana e comunista. Tutt’altro. Negli anni immediatamente successivi alla fine della guerra sui quotidiani italiani di foibe se ne parlava eccome. Poi però la Jugoslavia del maresciallo Tito produsse il celebre strappo con Stalin rifiutandosi di entrare nell’orbita dell’Unione  Sovietica, e diventando di conseguenza l’unico canale di comunicazione, nell’est, con le potenze occidentali della NATO, in particolare con l’Inghilterra. Fu quindi la DC, il partito di governo, il partito della NATO, a occultare le foibe, nell’ottica del non mettere in cattiva luce i soldati di Tito e di un dialogo con la Jugoslavia che non doveva assolutamente interrompersi.
Ne parla, e lo dimostra,in maniera eccellente il libro Giornalismo nel dopoguerra, scritto dal mio amico Giuseppe Gori Savellini. Solo che Giuseppe non ha vinto Sanremo, non fa marchette di partito, non vota PD e non piace alla destra. Perciò se volete leggere il suo libro dovete armarvi di santa pazienza: i grandi quotidiani non lo recensiscono e vi tocca ordinarlo in libreria. E aspettare.
Perché l’editoria, la fiction, il teatro, l’intera macchina della produzione e distribuzione della cultura, decide meticolosamente di cosa parlare e di come parlarne, quali vittime vanno bene e quali no.
Non si può parlare, ad esempio, di Ilaria Alpi, come non si può parlare di Carlo Giuliani.
Non è un caso che il mio spettacolo dedicato al G8 di Genova, Con il tuo sasso, dove tra l’altro la parola “vittima” non è mai pronunciata, non sia mai stato recensito da un grande quotidiano, mentre “Magazzino 18” ha avuto tre-quattro colonne in tutte le pagine culturali di qualsiasi giornale. Non che io sia più bravo di Cristicchi, per carità. Solo che, in pochi lo sanno, il mio piccolo “Con il tuo sasso”, con le sue 473 repliche, è stato tra gli spettacoli teatrali italiani più rappresentati negli ultimi vent’anni. Strano che nessun quotidiano si sia preoccupato di recensirlo e pubblicizzarlo.
Anzi no. A pensarci, non è strano per niente.

8. CONCLUSIONI (ovvero: CI SCUSIAMO PER L’INTERRUZIONE)

In realtà dopo questo fiume di parole non ho sentenze definitive né morali da trarre. Non ho alcuna conclusione.
Ho solo provato a gettare nella mischia le contraddizioni della verità storica. Impresa vana: alla verità della storia materiale, preferiamo sempre le visioni dell’Apocalisse.
Perciò, ci scusiamo per l’interruzione: l’Apocalisse riprenderà il più presto possibile.

Riccardo Lestini
(articolo scritto e pubblicato per la prima volta il 23/01/15)

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Riccardo Lestini